Con sentenza del 30 aprile 2018, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza appellata dagli odierni ricorrenti, li ha assolti dalla contravvenzione di concorso nell’attività di gestione illecita di rifiuti consistente in deposito incontrollato, confermandone invece la condanna per concorso nel delitto di cui all’art. 256 bis, commi 1 e 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e nella contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. per la combustione di una parte dei rifiuti depositati così provocando emissioni di fumi idonee ad arrecare molestia alle persone.
L’ultimo motivo di ricorso, concernente la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. contestata al capo c), è infondato. L’insufficienza della prova circa la mancanza di consapevolezza della natura incontrollata dei deposito, non vale – come vorrebbero i ricorrenti – a far ritenere non antigiuridico l’abbruciarnento dei rifiuti. Quest’ultima attività – che rientra in quelle di smaltimento prevista dall’Allegato B al d.lgs. 152/2996 (cfr. il punto D10, “incenerimento a terra”) – per essere legale necessita di un’apposita autorizzazione e, peraltro, è incompatibile con il concetto di deposito temporaneo di rifiuti presso il produttore che i ricorrenti avrebbero “plausibilmente ritenuto” nel caso di specie.
È peraltro non conferente il riferimento alla normale tollerabilità di cui all’art. 844 cod. civ. Ed invero, posto che all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”, contenuto nella disposizione incriminatrice di cui all’art. 674 cod. pen. e riferibile solo alle emissioni che possono essere specificamente autorizzate, deve riconoscersi un valore rigido e decisivo, tale da costituire una sorta di spartiacque tra il versante dell’illecito penale, da un lato, e dell’illecito civile, dall’altro, secondo il maggioritario e condivisibile orientamento di questa Corte – che va qui ribadito – il reato di getto pericoloso di cose non è configurabile nel caso in cui le emissioni provengano da un’attività regolarmente autorizzata o da un’attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali, e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che le riguardano, il cui rispetto implica una presunzione di legittimità del comportamento.
Nel caso di specie, non solo l’abbruciamento non era stato autorizzato, ma quand’anche lo fosse stato, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, ai fini del giudizio sulla configurabilità del reato sarebbe stato necessario fare riferimento, quale parametro di legalità dell’emissione, al criterio della “stretta tollerabilità”, e non invece, di quello della “normale tollerabilità” previsto dall’art. 844 cod. civ., attesa l’inidoneità di quest’ultimo ad assicurare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana.
La sentenza impugnata – sul punto conforme a quella di primo grado – ha ritenuto la sussistenza della contravvenzione, anche sulla base delle fotografie acquisite, rilevando la cospicua entità dei fumi ed il quantitativo di materiali bruciati (la cui natura quale indicata in imputazione – “secchi in plastica contenenti vernici, pezzi di tubi di gomma e plastica, bombolette spray, lana di roccia e lastre di polistirolo” – ulteriormente attesta l’addebitata idoneità ad irritare le vie respiratorie). Il ricorso non contesta specificamente la logicità di tale valutazione del giudice di merito che, pertanto, non può essere qui sindacata.
Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Secondo un risalente orientamento, di recente riproposto e che va qui ribadito, la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 cod. pen. è applicabile esclusivamente ai rapporti di subordinazione previsti dal diritto pubblico e non anche a quelli di diritto privato, sicché il dipendente privato che riceva dal proprio datore di lavoro una qualunque disposizione operativa, è tenuto a verificarne la rispondenza alla legge secondo gli ordinari canoni di diligenza e, qualora ne riscontri l’illegittimità, deve rifiutarne l’esecuzione, senza che, altrimenti, possa ravvisarsi l’impossibilità di sottrarsi all’ordine che esclude la punibilità della condotta.
Sono invece fondati, nei limiti di cui infra, i primi due motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto obiettivamente connessi.
Come afferma chiaramente la disposizione incriminatrice e come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, il delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256-bis, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – che è reato di pericolo concreto e di condotta, per la cui consumazione è irrilevante la verifica del danno all’ambiente – punisce con l’elevata pena ivi prevista, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la combustione illecita dei soli «rifiuti abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato». Il riferimento, dunque, è alle condotte richiamate nell’art. 255, comma 1 (e 256, comma 2) d.lgs. 152/2006 e, per il principio di tassatività, non può estendersi a rifiuti che siano oggetto di forme di gestione autorizzata o comunque lecita.
È contraddittoria, pertanto, la sentenza impugnata nella parte in cui, per un verso, sul rilievo che non fosse certa la prova della consapevolezza degli imputati circa la mancanza di un’autorizzazione da parte del datore di lavoro per un’attività di raccolta di rifiuti situati sull’area, recintata, limitrofa allo stabilimento, li ha assolti dalla contravvenzione di realizzazione di un deposito incontrollato di rifiuti contestata al capo a) – peraltro punita anche soltanto a titolo di colpa – per poi ritenerli invece responsabili del delitto contestato al capo b)in base all’opposta (e contraddittoria) osservazione che, trattandosi di rifiuti che erano stati depositati in maniera incontrollata, non potevano essere bruciati. Del resto, come si è visto, l’incenerimento a terra è una forma di gestione dei rifiuti che necessita di autorizzazione, sicché, laddove questa manchi e non si tratti di condotta commessa su rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato – né sussistano deroghe, come quella contenuta nell’art. 256 bis, comma 6, d.lgs. 152 del 2006, che prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative previste per l’abbandono di rifiuti dall’art. 255 qualora le condotte riguardino i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, ovvero quella relativa alla liceità della combustione dei materiali vegetali di cui all’art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152 del 2006, considerata normale pratica agricola laddove siano rispettate le condizioni indicate – potrebbe sussistere la residuale ipotesi contravvenzionale di smaltimento non autorizzato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, punibile anche a titolo di colpa. Pur dopo l’introduzione dell’art. 256-bis del decreto – e al di fuori della sua sfera di applicazione quale tassativamente delineata dalla norma – restano dunque fermi i principi, già in passato affermati, secondo cui, ad. es., integra il reato previsto dall’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006 lo smaltimento di rifiuti di imballaggio (nella specie, polistirolo) mediante incenerimento in assenza della prescritta autorizzazione, ovvero l’incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di fuori delle condizioni previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d.lgs. 152 del 2006.
Con riguardo al delitto di cui al capo b) – e, in ogni caso, quanto al trattamento sanzionatorio per la contravvenzione di cui al capo c), in relazione alla quale la penale responsabilità è da intendersi definitivamente accertata ai sensi dell’art. 624, comma 1, cod. proc. pen. – la sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio alla Corte d’appello, con rigetto nel resto dei ricorsi.
Getto pericoloso di cose ed emissioni (Cass. Pen. Sez. III 13.9.2019 sent. n. 38021)
