Soluzioni pratiche in responsabilità Sanitaria

E’ uscito ed è acquistabile il libro “Soluzioni Pratiche In Materia Di Responsabilità Sanitaria – Con focus aggiunto sulla pandemia covid-19”. E’ un libro schematico e di facile lettura, piccolo e leggero.
L’editore è CEDAM del gruppo Wolters Kluwer.
Si può acquistare comodamente online oppure nelle librerie.
Si chiama “soluzioni pratiche” perché si offre di contribuire a semplificare i problemi in una realtà delicata come l’ambito sanitario.

DESCRIZIONE:
Questo libro è una concisa guida pratica all’applicazione della normativa sulla responsabilità sanitaria, trattando la materia sia nell’ambito del diritto civile che del diritto penale.
Ha lo scopo di offrire un approccio concreto a tutti coloro che sono interessati a comprendere come arrivare alla soluzione dei problemi più frequenti, toccando con mano la realizzazione del diritto sanitario nella quotidianità.
Lo studio è stato condotto illustrando, rispettivamente, il punto di vista della struttura sanitaria, degli operatori sanitari e del paziente.
La parte teorica è semplificata e schematica, nonché arricchita di esempi.
Sono infatti previsti anche dei “casi pratici”, scelti tra i temi più ricorrenti nella realtà, con la corrispondente soluzione per ogni caso e con i motivi ragionati che hanno condotto proprio a quella soluzione.
La particolarità del presente lavoro è di essere frutto non solo dell’analisi delle leggi in vigore, ma anche della giurisprudenza maggiormente significativa, perché nonostante si sia giunti a un panorama normativo chiaro e completo resta pur sempre il diritto vivente a dominare i palcoscenici che destano maggior interesse all’atto pratico, costituendo quella porta sempre aperta tra la legge e le esigenze delle singole epoche storiche.

All’interno si trova anche un capitolo interamente dedicato alla pandemia Covid-19, per comprendere gli effetti scaturenti dal legame tra responsabilità sanitaria e Covid. Si spazia dal ruolo della struttura sanitaria, all’effettuazione del triage, ai casi di emergenza – urgenza, alla responsabilità personale nella diffusione del contagio da Covid.

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(Cass. Pen. Sez. VI sent. n. 16669 del 17.4.2019)

Il Tribunale, con sentenza 3.11.2017 dichiarava l’imputato H. colpevole del reato di cui all’art. 279, d. Lgs. n. 152 del 2006 (esercizio di attività di lavorazione marmi e ceramica, in assenza di autorizzazione alle emissioni in atmosfera), accertato in data 20.11.2012, condannandolo alla pena di 1000 di ammenda, con il concorso delle circostanze attenuanti generiche.
Con atto di appello, proposto dal difensore iscritto all’albo speciale di cui all’art. 613, cod. proc. pen., si chiedeva l’assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto, anche con formula dubitativa, in particolare deducendo: 1) il vizio di manifesta illogicità della motivazione (si censura la sentenza impugnata per aver dichiarato colpevole l’imputato in difetto degli elementi costitutivi del reato; si sarebbe accolta come verità assoluta la documentazione prodotta dalla Pubblica accusa, senza tuttavia indicare le ragioni che hanno condotto il giudice ad escludere le ipotesi antagoniste e a ritenere non attendibili quelle contrarie); 2) la violazione di legge in relazione all’art. 256, comma secondo, d. Igs. n. 152 del 2006 (si sostiene che, avendo la contravvenzione in esame la natura di reato proprio, la stessa richiede quale elemento costitutivo la qualità di titolare dell’impresa o di responsabile di ente da parte del suo autore, dovendosi configurare, in assenza, l’illecito amministrativo previsto dalla stessa disposizione; nel caso di specie, non sarebbe stato accertato che l’imputato fosse effettivamente il titolare dell’azienda, in quanto all’epoca dei fatti lo stesso era solo un dipendente).
L’impugnazione, riqualificata la stessa come ricorso per cassazione essendo proposta avverso una sentenza inappellabile ex art. 593, ultimo comma, cod. proc. pen., è inammissibile per genericità e perché proposta sia per motivi non consentiti dalla legge in questa sede sia perché manifestamente infondata.
Ed invero, quanto al primo motivo, la stessa – anche ove fosse stata rivolta contro sentenza appellabile – si presenta del tutto generica per aspecificità.
Le doglianze si risolvono, infatti, in una critica puramente contestativa alla sentenza, senza attingerla in specifici passaggi motivazionali, in quanto tali idonei 7L-a sollecitare adeguatamente una revisio prioris istantiae da parte del giudice del gravame. La stessa, quindi, in base all’autorevole arresto costituito dalle Sezioni Unite Galtelli, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, dovendosi in questa sede ribadire che l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 – dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 268822). Nella specie la sentenza “appellata” individua chiaramente le ragioni della configurabilità del reato contestato, motivando sinteticamente, ma in maniera sufficiente, in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo, essendo emerso che la ditta, di cui l’imputato risultava essere il legale rappresentante, esercitava abusivamente l’attività produttiva di emissioni in atmosfera. Le censure relativa alla presunta omessa valutazione degli elementi a discarico, sono peraltro del tutto prive di pregio; non può invero che rilevarsi la assoluta genericità della contestazione, non curandosi la difesa nemmeno di indicare quali sarebbero le “prove contrarie addotte” che il giudice non avrebbe valutato, ciò che impedisce quindi a questo Giudice di legittimità di valutare la esistenza e la consistenza del vizio dedotto ai sensi della lett. e) dell’art. 606, cod. proc. pen., che consente sì di dedurre il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità, ma pur sempre gravando la parte dell’onere di specificità, nella specie non adempiuto.
Quanto, infine, alla censura di violazione di legge di cui al secondo motivo, è totalmente destituita di fondamento, non solo perché la affermazione secondo cui l’imputato era dipendente non viene sorretta da alcun elemento di prova, nemmeno documentale, dalla difesa, venendo quindi smentita dalle emergenze processuali riferite in sentenza che qualificano come legale rappresentante della società a r.l. proprio l’imputato, ma non ha inoltre pregio perché la condotta contestata (esercizio abusivo di attività produttiva di emissioni in atmosfera), è condotta prevista e punita dal comma 1 dell’art. 279, d. Lgs. n. 152 del 2006, in quanto tale costituente tutt’ora reato, laddove invece, il richiamo alla sanzionabilità amministrativa, previsto dal comma 2-bis della citata disposizione, è relativo alla sola violazione delle semplici prescrizioni autorizzative, che evidentemente presuppongo il possesso dell’autorizzazione, situazione non ravvisabile nel caso di specie, in cui attività veniva svolta senza l’autorizzazione prevista dalla legge. Trova quindi applicazione il principio per cui la contravvenzione prevista dall’art. 279, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 è un reato proprio riferibile al “gestore dell’attività” da cui provengono le emissioni, quale soggetto obbligato a richiedere l’autorizzazione ai sensi dell’art. 269 del citato d.lgs.

Scarico di acque industriali (Cass. Pen. Sez. III sent. n. 56094 del 13.12.2018)

Con la sentenza impugnata, il Tribunale ha condannato V. alla pena di 5.000,00 di ammenda, per il reato di cui all’art. 137 del d.lgs n. 152 del 2006, per avere, quale legale rappresentante della C. mantenuto scarichi di acque reflue industriali provenienti da un’attività di produzione di mosti e vini, dopo la scadenza dell’autorizzazione allo scarico, rilasciata nel 1991 e mai rinnovata.
Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento, deducendo due motivi di ricorso.
Il primo motivo di ricorso con cui si deduce il vizio di motivazione è fondato, non è fondato il secondo motivo di ricorso. Lo “scarico” viene definito dall’art. 74, comma 1, lett. ff) d.lgs. 152 del 2006, come “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”.
Il Tribunale ha condannato l’imputato per avere mantenuto uno scarico in assenza di autorizzazione, perché quella richiesta era scaduta e non rinnovata.
Tuttavia, la prova dello scarico, che può essere fornita in qualunque modo purché venga dimostrato lo “scarico” secondo l’accezione sopra indicata, non è stata argomentata.
Il Tribunale ha unicamente rilevato che all’atto dell’accesso dei militari presso lo stabilimento di olio e vino della cooperativa di cui il ricorrente è legale rappresentante, era risultato che l’attività del frantoio era svolta in presenza delle autorizzazioni richieste, mentre l’attività vitivinicola non era in atto, nei silos vi era il vino, l’attività era svolta in locali vecchi privi dei requisiti igienico sanitari e l’imputato risultava in possesso di un’autorizzazione allo scarico risalente al 1991, scaduta nel 1999, e mai rinnovata. Da tali elementi ha tratto il convincimento che l’imputato aveva effettuato lo scarico dei reflui senza la prescritta autorizzazione sin dal 1999. Alcun accertamento risultava essere stato compiuto al fine di verificare l’esistenza di un sistema stabile di collettamento che deve collegare senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, perché, se è irrilevante la momentanea attività produttiva perché già terminata la vendemmia non di meno occorreva comunque la prova dello scarico ovvero, si ribadisce, del sistema stabile di collettamento tra ciclo produttivo e corpo recettore. In altri termini, non può ritenersi provato lo scarico dalla mera giacenza di vino nei silos.
Non è fondato il secondo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione di legge in relazione all’art. 101 comma 7 del d.lgs n. 152 del 2006.
In tema di inquinamento idrico l’assimilazione, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, di determinate acque reflue industriali alle acque reflue domestiche è subordinata alla dimostrazione della esistenza delle specifiche condizioni individuate dalle leggi che la prevedono, restando applicabili, in difetto, le regole ordinarie (Sez. 3, n. 38946 del 28/06/2017, De Giusti, Rv. 270791).
Nel caso in esame, si tratta di mera asserzione del tutto indimostrata, non avendo dimostrato il ricorrente l’esistenza delle condizioni individuate dalle leggi che la prevedono, restando applicabili, in difetto, le regole ordinarie. Pertanto, la sentenza deve essere annullata in presenza di un rilevato vizio di motivazione (primo motivo di ricorso), peraltro, come ha concluso il Procuratore generale, va disposto l’annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione, maturata nel corso del giudizio, del reato di cui all’art. 137 del d.lgs n. 152 del 2006 (prescrizione maturata, anche tenendo conto della sospensione del corso della prescrizione, al 01/02/2018). Il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta prescrizione del reato unitamente ad un vizio di motivazione della sentenza di condanna impugnata in ordine alla responsabilità dell’imputato comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza stessa.

Deterioramento del suolo e sottosuolo (Cass. Pen., Sez. III. Sent. n. 6264 del 11.10.2018)

Con ordinanza del 26 aprile 2018, il Tribunale ha rigettato la richiesta di riesame presentata dall’indagato avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale il 3 aprile 2018, avente ad oggetto denaro o beni nella disponibilità dello stesso indagato fino alla concorrenza di un milione di euro, in relazione al reato di cui all’art. 452 bis cod. pen., a lui contestato, in concorso con altro soggetto, quale amministratore unico di una società, per avere cagionato abusivamente una compromissione e un deterioramento significativi e misurabili di rilevanti porzioni del suolo e del sottosuolo, svolgendo un’attività di coltivazione di una cava che aveva cagionato una frana di dimensioni pari a 2,5 ha di superficie (157 m di lunghezza e 230 m di larghezza), travolgendo gli edifici di alcune attività commerciali e compromettendo la sicurezza di altri immobili.
Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico motivo di doglianza, l’erronea applicazione agli artt. 452 bis e 452 undecies cod. pen. nonché dell’art. 5, comma 1, lettera i-ter), del decreto legislativo n. 152 del 2006.
La dedotta violazione di legge consisterebbe nell’avere ritenuto rientrante nella disposizione incriminatrice una condotta che s’era sostanziata esclusivamente nell’innesco di una frana, ma non in inquinamento ambientale, essendo quest’ultimo definito come l’introduzione di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o, più in generale, di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi. E sarebbe pacifico, nel caso di specie, che la frana non aveva introdotto nell’ambiente nessun agente inquinante.
Il ricorso non è fondato.
La prospettazione difensiva si basa sull’assunto che il delitto di cui all’art. 452 bis cod pen. sia un reato a condotta vincolata, essendo configurabile solo nel caso della introduzione o immissione in un dato ambiente di agenti nocivi ad esso estranei, e richiama, a tal fine, la rubrica della disposizione, la quale fa riferimento all’«inquinamento ambientale». Tale assunto si pone, però, in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte – richiamata dallo stesso ricorrente e fatta propria dal Tribunale del riesame – la quale muove dall’affermazione che la compromissione e il deterioramento, di cui al delitto di inquinamento ambientale previsto dall’art. 452 bis cod. pen., consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio strutturale, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi (Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017, Rv. 269489 – 01; Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016, Rv. 268059 – 01). E si è osservato che, per comprendere la portata di tali termini, non assume decisivo rilievo la rubrica dell’articolo («inquinamento ambientale»), né è di ausilio la definizione di inquinamento contenuta nell’art. 5, comma 1, lettera i-ter), del d.lgs. n. 152 del 2006, perché tale definizione ha portata limitata a quell’ambito; tanto più che, quando lo ha ritenuto necessario a fini definitori, la legge n. 68 del 2015 ha espressamente richiamato il d.lgs. del 2006 o altre disposizioni.

Getto pericoloso di cose ed emissioni (Cass. Pen. Sez. III 13.9.2019 sent. n. 38021)

Con sentenza del 30 aprile 2018, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza appellata dagli odierni ricorrenti, li ha assolti dalla contravvenzione di concorso nell’attività di gestione illecita di rifiuti consistente in deposito incontrollato, confermandone invece la condanna per concorso nel delitto di cui all’art. 256 bis, commi 1 e 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e nella contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. per la combustione di una parte dei rifiuti depositati così provocando emissioni di fumi idonee ad arrecare molestia alle persone.
L’ultimo motivo di ricorso, concernente la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. contestata al capo c), è infondato. L’insufficienza della prova circa la mancanza di consapevolezza della natura incontrollata dei deposito, non vale – come vorrebbero i ricorrenti – a far ritenere non antigiuridico l’abbruciarnento dei rifiuti. Quest’ultima attività – che rientra in quelle di smaltimento prevista dall’Allegato B al d.lgs. 152/2996 (cfr. il punto D10, “incenerimento a terra”) – per essere legale necessita di un’apposita autorizzazione e, peraltro, è incompatibile con il concetto di deposito temporaneo di rifiuti presso il produttore che i ricorrenti avrebbero “plausibilmente ritenuto” nel caso di specie.
È peraltro non conferente il riferimento alla normale tollerabilità di cui all’art. 844 cod. civ. Ed invero, posto che all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”, contenuto nella disposizione incriminatrice di cui all’art. 674 cod. pen. e riferibile solo alle emissioni che possono essere specificamente autorizzate, deve riconoscersi un valore rigido e decisivo, tale da costituire una sorta di spartiacque tra il versante dell’illecito penale, da un lato, e dell’illecito civile, dall’altro, secondo il maggioritario e condivisibile orientamento di questa Corte – che va qui ribadito – il reato di getto pericoloso di cose non è configurabile nel caso in cui le emissioni provengano da un’attività regolarmente autorizzata o da un’attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali, e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che le riguardano, il cui rispetto implica una presunzione di legittimità del comportamento.
Nel caso di specie, non solo l’abbruciamento non era stato autorizzato, ma quand’anche lo fosse stato, in quanto non esiste una normativa statale che prevede disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, ai fini del giudizio sulla configurabilità del reato sarebbe stato necessario fare riferimento, quale parametro di legalità dell’emissione, al criterio della “stretta tollerabilità”, e non invece, di quello della “normale tollerabilità” previsto dall’art. 844 cod. civ., attesa l’inidoneità di quest’ultimo ad assicurare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana.
La sentenza impugnata – sul punto conforme a quella di primo grado – ha ritenuto la sussistenza della contravvenzione, anche sulla base delle fotografie acquisite, rilevando la cospicua entità dei fumi ed il quantitativo di materiali bruciati (la cui natura quale indicata in imputazione – “secchi in plastica contenenti vernici, pezzi di tubi di gomma e plastica, bombolette spray, lana di roccia e lastre di polistirolo” – ulteriormente attesta l’addebitata idoneità ad irritare le vie respiratorie). Il ricorso non contesta specificamente la logicità di tale valutazione del giudice di merito che, pertanto, non può essere qui sindacata.
Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Secondo un risalente orientamento, di recente riproposto e che va qui ribadito, la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 cod. pen. è applicabile esclusivamente ai rapporti di subordinazione previsti dal diritto pubblico e non anche a quelli di diritto privato, sicché il dipendente privato che riceva dal proprio datore di lavoro una qualunque disposizione operativa, è tenuto a verificarne la rispondenza alla legge secondo gli ordinari canoni di diligenza e, qualora ne riscontri l’illegittimità, deve rifiutarne l’esecuzione, senza che, altrimenti, possa ravvisarsi l’impossibilità di sottrarsi all’ordine che esclude la punibilità della condotta.
Sono invece fondati, nei limiti di cui infra, i primi due motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente in quanto obiettivamente connessi.
Come afferma chiaramente la disposizione incriminatrice e come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, il delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256-bis, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – che è reato di pericolo concreto e di condotta, per la cui consumazione è irrilevante la verifica del danno all’ambiente – punisce con l’elevata pena ivi prevista, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, la combustione illecita dei soli «rifiuti abbandonati ovvero depositati in modo incontrollato». Il riferimento, dunque, è alle condotte richiamate nell’art. 255, comma 1 (e 256, comma 2) d.lgs. 152/2006 e, per il principio di tassatività, non può estendersi a rifiuti che siano oggetto di forme di gestione autorizzata o comunque lecita.
È contraddittoria, pertanto, la sentenza impugnata nella parte in cui, per un verso, sul rilievo che non fosse certa la prova della consapevolezza degli imputati circa la mancanza di un’autorizzazione da parte del datore di lavoro per un’attività di raccolta di rifiuti situati sull’area, recintata, limitrofa allo stabilimento, li ha assolti dalla contravvenzione di realizzazione di un deposito incontrollato di rifiuti contestata al capo a) – peraltro punita anche soltanto a titolo di colpa – per poi ritenerli invece responsabili del delitto contestato al capo b)in base all’opposta (e contraddittoria) osservazione che, trattandosi di rifiuti che erano stati depositati in maniera incontrollata, non potevano essere bruciati. Del resto, come si è visto, l’incenerimento a terra è una forma di gestione dei rifiuti che necessita di autorizzazione, sicché, laddove questa manchi e non si tratti di condotta commessa su rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato – né sussistano deroghe, come quella contenuta nell’art. 256 bis, comma 6, d.lgs. 152 del 2006, che prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative previste per l’abbandono di rifiuti dall’art. 255 qualora le condotte riguardino i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, ovvero quella relativa alla liceità della combustione dei materiali vegetali di cui all’art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152 del 2006, considerata normale pratica agricola laddove siano rispettate le condizioni indicate – potrebbe sussistere la residuale ipotesi contravvenzionale di smaltimento non autorizzato di cui all’art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, punibile anche a titolo di colpa. Pur dopo l’introduzione dell’art. 256-bis del decreto – e al di fuori della sua sfera di applicazione quale tassativamente delineata dalla norma – restano dunque fermi i principi, già in passato affermati, secondo cui, ad. es., integra il reato previsto dall’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006 lo smaltimento di rifiuti di imballaggio (nella specie, polistirolo) mediante incenerimento in assenza della prescritta autorizzazione, ovvero l’incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di fuori delle condizioni previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d.lgs. 152 del 2006.
Con riguardo al delitto di cui al capo b) – e, in ogni caso, quanto al trattamento sanzionatorio per la contravvenzione di cui al capo c), in relazione alla quale la penale responsabilità è da intendersi definitivamente accertata ai sensi dell’art. 624, comma 1, cod. proc. pen. – la sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio alla Corte d’appello, con rigetto nel resto dei ricorsi.

Acque di frantoio e disposizioni regionali (Cass. Pen. Sez. III 18/10/2019 sentenza n. 42925)

Il Tribunale con sentenza del 20 febbraio 2018 ha condannato F. alla pena di 1.000,00 di ammenda con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche relativamente al reato di cui all’art. 137, d. lgs. 152 del 2006 perché a partire dal 13 del mese di novembre 2012 effettuava l’utilizzazione agronomica di circa 3 mc di acque di vegetazione prodotte dalle operazioni di molitura ed eccedenti la capacità di 8,66 mc delle vasche di accumulo istallate presso il predetto frantoio, un mese prima e quindi in assenza della comunicazione preventiva al Sindaco del Comune, prevista dalla legge regionale 255/2007.
L’imputato ha proposto appello, trasmesso a questa Corte di Cassazione, tramite il difensore, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Il ricorso risulta inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi, genericità e perché tenta di rileggere i fatti accertati in sede di merito. In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in cassazione solo perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità.
La sentenza impugnata con adeguata motivazione, immune da contraddizioni o da manifeste illogicità, ricostruisce i fatti e determina la penale responsabilità della ricorrente relativamente al reato contestato, rilevando che l’utilizzazione delle acque di frantoio è stata effettuata senza previa comunicazione al Sindaco; comunicazione poi intervenuta successivamente, come emerge dalla deposizione del teste.
Si tratta di accertamenti di fatto relativi alle modalità dello spandimento sul terreno delle acque di frantoio, senza autorizzazione, insindacabili in sede di legittimità, se adeguatamente motivati come nella fattispecie in giudizio. Del resto l’utilizzazione di acque di frantoio in difformità alle disposizioni regionali in materia costituisce reato e non illecito amministrativo: «Integra il reato di cui all’art. 137 D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 l’utilizzazione agronomica di acque di vegetazione di frantoi effettuata in contrasto con le prescrizioni imposte dalle regioni, ivi comprese quelle per il controllo dell’attività.

Il ricorso sul punto, articolato in fatto non si confronta con le motivazioni della sentenza, ma in via del tutto generica ritiene configurabile solo un illecito amministrativo.
Alla data della sentenza impugnata non era decorso il termine massimo di prescrizione di anni 5, considerando anche le sospensioni della prescrizione e l’inammissibilità del ricorso esclude la valutazione della prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata: «L’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.

Scarichi e mancato funzionamento dell’impianto (Cass. Pen. Sez. VII, 2.10.2019 Ord. n. 40236)

Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di Appello ha integralmente confermato la condanna di R. alla pena di 6.000 di ammenda pronunciata all’esito del giudizio di primo grado dal Tribunale per i reati di cui agli artt. 137 e 256, 2 comma d. L.gs. 152/2006 per aver, in qualità di amministratore unico della s.r.l., scaricato nella rete fognaria comunale, in assenza di autorizzazione, i reflui dell’attività di lavorazione degli agrumi (capo A), nonché depositato in modo incontrollato i rifiuti provenienti dalla medesima attività svolta a livello industriale (capo B).
Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione articolando un unico motivo con il quale lamenta, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, l’irragionevole valutazione delle risultanze istruttorie essendosi pervenuti all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato malgrado fosse emerso dalla deposizione del teste a discarico e parzialmente confermato anche dai testi dell’accusa che non era in corso alcuna attività produttiva al momento del sopralluogo eseguito di prima mattina senza che risultassero presenti i dipendenti addetti alla lavorazione ma solo i familiari dell’imputato e l’impiegato amministrativo, intenti a verificare le condizioni di manutenzione dei macchinari che erano stati messi in funzione al solo fine di consentire agli agenti intervenuti il controllo del loro funzionamento. Il mancato accertamento di uno scarico industriale che defluisse nella rete fognaria ivi immettendo i reflui provenienti dalla lavorazione degli agrumi non consentiva, secondo la difesa, avendo anche l’ispettore dichiarato di non ricordare se l’impianto al momento dell’accesso fosse in funzione, di desumere, in assenza di attività produttiva in corso, lo scarico dei reflui a livello industriale, potendosi al più ipotizzare, ove si fosse ritenuto di valorizzare la presenza di acqua nelle condutture fognarie, un deflusso di acqua soltanto occasionale e del tutto estraneo all’attività produttiva, con conseguente inconfigurabilità del reato di cui al capo a). Quanto al reato di deposito incontrollato di rifiuti di cui al capo b) contesta che al cd. “pastazzo” rinvenuto sul terreno potesse riconoscersi la natura di rifiuto, dovendo quello contenuto in fusti essere considerato un sottoprodotto e venendo quello a diretto contatto con il terreno utilizzato come fertilizzante dello stesso.
Il ricorso, compendiandosi in censure di natura squisitamente fattuale e comunque generiche non confrontandosi con le puntuali argomentazioni spese dalla Corte distrettuale, deve essere dichiarato inammissibile.
Quanto al reato di cui al capo A) le contestazioni difensive si fondano sull’incondivisibile assunto, peraltro neppure incontrovertibilmente accertato, che il mancato funzionamento dell’impianto produttivo dal quale provengono i reflui confluenti nella rete fognaria, non consenta di ravvisare la contravvenzione contestata all’imputato. La condotta tipizzata dall’art. 137 d. L.gs. 152/2006 è costituita dall’apertura o effettuazione di scarichi delle acque reflue industriali, nel cui novero sono indiscutibilmente comprese quelle provenienti dalla lavorazione degli agrumi e confezionamento svolta dalla società amministrata dall’imputato trattandosi di un insediamento produttivo, in assenza dell’autorizzazione prescritta dall’art. 124 del medesimo decreto legislativo, la quale ha lo scopo evidente di consentire la verifica della rispondenza dell’intervento eseguito con le finalità di tutela dell’ambiente perseguite dalla legge. Quella che viene sanzionata è l’illiceità dello scarico in relazione ad un’attività che, come puntualmente stigmatizzato dalla sentenza impugnata, genera il decorso dei reflui ritenuto potenzialmente pericoloso per l’integrità dell’ambiente in genere e delle risorse idriche in particolare, attività che prescinde dal fatto che l’impianto fosse o meno in funzione nello specifico momento dell’ispezione. La sentenza impugnata, sulla base di elementi fattuali concreti, illustrati in maniera congrua e non contraddittoria, rende opportunamente conto del deflusso delle acque reflue nella rete fognaria comunale, che oltre ad essere stato constatato de visu dai verbalizzanti al momento del sopralluogo relativamente alle acque in uscita dallo stabilimento che “scorreva all’interno delle griglie”, viene logicamente desunto da una serie di elementi convergenti, quali la circostanza che le confezioni aziendali fossero già pronte, il rumore dello scolo dell’acqua percepito dai verbalizzanti, le fotografie allegate al verbale riproducenti la vasca di lavorazione colma di reflui stagnanti la cui condotta di scarico era collegata al sistema fognario, evidenzianti che l’attività produttiva era in atto o comunque era cessata da poco, fatto questo che rende irrilevante l’assenza dei dipendenti addetti alla lavorazione al momento dell’eseguita ispezione.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi anche per il secondo motivo: la Corte distrettuale ha chiaramente evidenziato, in considerazione dello stato di avanzata decomposizione dei fusti e dell’ammuffimento del pastazzo riverso direttamente sul terreno nudo, la condizione di abbandono del prodotto derivante dalla lavorazione degli agrumi, integrante perciò il deposito incontrollato di rifiuti senza che possano trovare ingresso nella presente sede di legittimità le contestazioni di natura meramente fattuale svolte dalla difesa in ordine al fatto che il pastazzo riverso sul suolo fungesse da concime, funzione che comunque non incide sulla rilevanza penale del fatto.
Tenuto conto della sentenza del 13.6.2000 n.186 della Corte Costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità” all’esito del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata come in dispositivo.

Reflui da impianti di autolavaggio (Cass. Pen. Sez. III 20.6.2019 Sent. n. 27516)

Lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.
Con sentenza del marzo 2018 il Tribunale, in esito a giudizio abbreviato, ha dichiarato C. responsabile del reato di cui all’art. 137 d.lgs. 152/2006 per avere, quale titolare di un autolavaggio, scaricato nella fognatura pubblica le acque reflue provenienti dal piazzale adibito al parcheggio delle automobili e al loro lavaggio, condannandolo alla pena, condizionalmente sospesa, di euro 2.000,00 di ammenda.
Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo, mediante il quale sono state lamentate l’insufficienza della motivazione e l’errata applicazione della norma incriminatrice contestata, a causa dell’omesso accertamento delle caratteristiche delle acque provenienti dall’impianto di autolavaggio gestito dall’imputato, è inammissibile, sia perché è volto a censurare un accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito (circa la natura di acque industriali dei reflui provenienti da tale impianto, fondato, correttamente, sulle caratteristiche dello stesso e dell’attività ivi svolta, tra l’altro mediante l’impiego di detersivi utilizzati per il lavaggio delle automobili); sia perché si pone in contrasto con un consolidato orientamento interpretativo di questa Corte, secondo cui lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, perché tali acque non possono essere assimiliate a quelle domestiche, stante la presenza di caratteristiche inquinanti diverse e più rilevanti di quelle di un insediamento civile, per la presenza di oli minerali, sostanze chimiche e particelle di vernice che possono staccarsi dalle autovetture (cfr. Sez. 3, n. 51889 del 21/07/2016, Rv. 268398; Sez. 3, n. 26543 del 21/05/2008, Rv. 240537, nella quale, in motivazione, è stato precisato che la modifica apportata alla nozione di scarico dal d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 è strumentale unicamente a riaffermare la nozione di scarico diretto, riproponendo in forma più chiara e netta la distinzione esistente tra la nozione di acque di scarico e quella di rifiuti liquidi; v. anche Sez. 3, n. 985 del 05/12/2003, Rv. 227182).
Quanto al secondo motivo, relativo all’ingiustificato diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, va rilevato che l’imputato non ne aveva fatto richiesta, posto che, come risulta dal verbale dell’udienza di discussione innanzi al Tribunale, all’atto della formulazione delle conclusioni il suo difensore aveva chiesto solamente l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis, il contenimento della pena nel minimo edittale e il riconoscimento dei benefici di legge (cioè della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna), cosicché, in assenza di una richiesta, non vi era neppure un obbligo di specifica motivazione circa il diniego di dette circostanze, in quanto la presunzione di non meritevolezza di tali circostanze impone al giudice di primo grado di spiegare le ragioni che giustificano la decisione di mitigare il trattamento sanzionatorio attraverso la loro concessione, mentre nel caso di mancato riconoscimento di tale riduzione l’obbligo di motivazione non sussiste, in assenza di richiesta da parte dell’interessato o nell’ipotesi di richiesta generica (Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Rv. 270694; conf. Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Rv. 245241; v. anche Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013, Rv. 254716).
Ne consegue manifesta infondatezza della censura di carenza di motivazione formulata riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Se un erede chiede rendiconto non si producono automaticamente effetti in favore di tutti gli altri eredi (Cass. sez. II Civ. Ord. n. 31857 del 10.10.2018)

L’attore citava innanzi al Tribunale le sorelle e figlio della premorta sorella, chiedendo lo scioglimento della comunione ereditaria in relazione all’asse relitto del de cuius deceduto ab intestato; con il medesimo atto introduttivo, l’attore svolgeva domanda di rendiconto nei confronti di una erede in relazione alla gestione dei terreni da lei amministrati. Si costituivano i convenuti contestando la domanda di rendiconto.
Il Tribunale dichiarava lo scioglimento della comunione e condannava una erede al pagamento della somma in favore di ciascun convenuto.
La Corte d’Appello con sentenza rigettava l’appello proposto dalla parte condannata.
In Cassazione costei ha proposto ricorso.
È principio consolidato che sussista autonomia tra il procedimento di divisione e l’azione di rendiconto. Nell’ambito dei rapporti tra coeredi la resa dei conti può essere inserita nel procedimento divisorio, ai sensi dell’art. 723 c.c., con la finalità di definire i rapporti interni inerenti la comunione. Si tratta, in questo caso, di un obbligo a sé stante, fondato sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti. Poiché l’azione di rendiconto non può pregiudicare gli interessi dei coeredi non sono ravvisabili gli estremi del litisconsorzio necessario. Ha affermato questa Corte che, nel caso in cui taluni degli eredi agiscano con azione di rendimento nei confronti dei coeredi immessisi nel possesso e nel godimento esclusivo di un bene ereditario fruttifero, per ripetere, nei limiti della quota di loro spettanza, i frutti da costoro percepiti in costanza del rapporto di comunione ereditaria, non si verifica un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti degli altri coeredi non possessori, in quanto ad essi nessun concreto pregiudizio potrebbe derivare dalla decisione richiesta.
Il rendiconto consiste nella formazione di uno stato attivo e passivo dell’eredità munito dei documenti giustificativi (art. 263 c.p.c. comma 1); la relativa domanda comporta, a livello processuale, che se il conto è approvato il giudice emette un’ordinanza di pagamento delle somme che costituisce titolo esecutivo (art. 263 cpv. c.c.), e che in ogni caso il giudice può disporre, con ordinanza non impugnabile, il pagamento del sopravanzo che risulta dal conto o dalla discussione dello stesso (art. 264 c.p.c. comma 3). Dall’insieme di tali disposizioni risulta di tutta evidenza che la domanda di rendiconto reca ineludibilmente in sé anche quella di condanna al pagamento delle somme che risulteranno dovute, essendo il rendiconto finalizzato proprio all’emissione di titoli di pagamento. Non viola, pertanto, l’art. 112 c.p.c. il giudice che pronunci condanna alla corresponsione di tali somme anche senza un’espressa domanda al riguardo. L’obbligo di uno dei coeredi, nell’ambito del rendiconto con gli altri coeredi (art.724 comma 2 c.c.) di restituire in tutto o in parte i frutti civili prodotti da un bene in comunione, integra ab origine un debito di valuta. La corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra affermati. Nella specie, l’attrice aveva proposto insieme alla domanda di divisione domanda di rendimento dei conti unicamente nei confronti di una erede e non delle altre parti, sicchè la condanna andava pronunciata unicamente nei suoi confronti.

Sui criteri per ricostruire le volontà del testatore (Cass. civ. Sez. II, Sent. del 12.03.2019 n. 7025)

Gli eredi convennero dinanzi al Tribunale l’Arcidiocesi e un’altra erede, esponendo che con testamento la de cuius aveva nominato eredi universali gli attori ed assegnato a titolo di legato a favore dell’arcivescovo alcuni immobili, tra cui quello in cui abitava, “per fini di culto e di religione “; che con successiva missiva datata 1943 ed inviata alla Curia la testatrice aveva vergato la seguente dichiarazione: “che l’appartamento da me abitato sia ricovero dei sacerdoti poveri e che le rendite degli altri appartamenti, di quarti e quartini uniti alle rendite dei quartini a palazzo servirà per il mantenimento dei poveri sacerdoti ricoverati “; che dal 1997, dopo che l’appartamento assegnato era stato gestito da suore per la cura di preti poveri, esso era stato trasformato in diversi mini locali affittati a terzi; che tale nuova destinazione contravveniva all’onere imposto dalla testatrice.
Ciò esposto, con atto di citazione gli eredi chiesero che fosse disposta la risoluzione della disposizione testamentaria di legato per inadempimento del modus in essa contenuto.
L’Arcidiocesi si oppose alla domanda, contestando la violazione denunziata e l’inidoneità della lettera del 1943, in quanto non autografa, ad integrare quanto disposto nel testamento del 1941.
Il giudice adito, con sentenza dispose la risoluzione della disposizione testamentaria per inadempimento dell’onere in essa previsto.
L’Arcidiocesi appellò la decisione.
Con Sentenza la Corte di Appello decise rigettando la domanda. La Corte pervenne al rigetto dell’appello ritenendo che fosse corretto il ragionamento del Tribunale laddove aveva ritenuto, al fine di ricostruire la volontà della scheda testamentaria di L.M., di utilizzare e valorizzate la lettera del 1943 dalla stessa inviata alla Curia, ove ella spiegava cosa intendesse con la locuzione “fini di culto e di religione” apposta al legato, che altresì fosse corretta la qualificazione di tale clausola come modus e che infine risultasse provato che la legataria non vi aveva adempiuto, avendo trasformato l’appartamento in mini alloggi che aveva poi locato a terzi.
L’Arcidiocesi ricorre per Cassazione.
La Cassazione ha affermato che l’interpretazione del testamento si caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, la quale alla stregua dell’art. 1362 c.c. va individuata sulla base dell’esame globale della scheda testamentaria, e non di ciascuna singola disposizione, e che al fine di superare eventuali dubbi sull’effettivo significato di parole ed espressioni usate dal testatore deve farsi riferimento anche ad elementi estrinseci alla scheda stessa, come la cultura, la mentalità, le abitudini espressive e l’ambiente di vita del testatore medesimo, di modo che il giudice del merito, il cui accertamento è insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, nella doverosa ricerca di detta volontà, può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell’atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purché non contrastante e antitetico, e si prestino ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale intenzione del de cuius.
Il rispetto dei criteri ermeneutici che mirano alla ricostruire l’effettiva volontà del testatore come espressa nel testamento impedisce tuttavia qualsiasi operazione che porti ad integrare, sulla base dei suddetti elementi valutativi, ab extrinseco tale volontà, attribuendo ad essa contenuti inespressi ovvero diversi da quelli risultanti dalla dichiarazione stessa.
Nel caso di specie la Corte territoriale non si è attenuta a tali principi, dal momento che, pur svolgendo le sue considerazioni su un terreno apparentemente interpretativo, ha nel concreto utilizzato la missiva scritta dalla testatrice nel 1943 non già per chiarire cosa ella intendesse con la dicitura “a fini di culto e di religione” apposta al legato, ma per attribuire ad essa un contenuto particolare e specifico, vale a dire che l’appartamento da lei abitato doveva essere destinato ad ospitare preti poveri e il reddito degli altri beni fosse destinato al loro sostentamento. Il risultato dell’interpretazione è così consistito in un’operazione diretta non già a ricostruire la volontà della testatrice come espressa nel testamento, ma ad integrarla, attribuendole un significato comunque nuovo rispetto ad esso. L’operazione di integrazione della volontà della testatrice in forza della lettera del 1943 risultava preclusa dalla natura e caratteristiche di tale missiva, che pacificamente era dattiloscritta e quindi non olografa, sicché essa non aveva i requisiti di forma per potere avere un’efficacia integrativa del testamento.
La sentenza va quindi cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata ad altra Sezione della Corte di Appello che si adeguerà al seguente principio di diritto: nell’interpretazione del testamento deve aversi riguardo alla volontà espressa da testatore nella scheda testamentaria, potendosi ricorrere ad elementi estrinseci solo per risolvere parole o espressioni dubbie al solo scopo di ricostruire l’effettiva intenzione del suo autore, mentre rimane precluso all’interprete avvalersi di tali dati estrinseci per giungere al risultato di attribuire alla disposizione testamentaria un contenuto nuovo, in quanto non espresso nel testamento.